Di Luca Spoldi e Andrea Deugeni
Un manager che ha distrutto valore, come accusa Giulia Ligresti tanto da dover esser citato “per danni” invece che portare a casa una buonuscita milionaria o un banchiere che, al contrario,
ha eseguito diligentemente il suo compito, ma si è trovato ad affrontare una “tempesta perfetta” contro cui ben poco si poteva fare? Le polemiche rispetto alla figura e alle capacità di
Piergiorgio Peluso, “accusato” nelle intercettazioni pubblicate di Giulia Ligresti di essere stato un dirigente che ha distrutto valore in pochi mesi divampano, sembrano quanto meno fuori luogo. Peluso, arrivato in Fondiaria-Sai coi galloni di direttore generale nel giugno 2011 dopo l’aumento di capitale da 460 milioni dopo precedenti esperienza in Capitalia e UniCredit, iniziò sin da subito a ripulire il bilancio della compagnia dei Ligresti ma si trovò nel giro di un paio di mesi ad affrontare una situazione di mercato contro la quale ogni tentativo di turnaround sembrava non poter avere successo.
Per intenderci era il momento in cui da un minimo del 6,4% toccato proprio nei giorni in cui Peluso entrava in Fondiaria-Sai il rendimento del Btp decennale guida riprendeva a salire violentemente, sino a toccare il 7,15% a inizio gennaio 2012. Un movimento di mercato così brusco da determinare la caduta del governo Berlusconi e l’insediamento “a furor di mercati” del governo Monti.
I primi risultati dell’operazione di pulizia del bilancio intrapresa da Peluso e dalla sua squadra in Fondiaria-Sai si videro già nella relazione al 30 giugno 2012, chiusa con un utile netto di 24,9 milioni di euro (contro una perdita di 61,5 milioni a fine giugno 2011) nonostante il fallimento delle holding dei Ligresti, Imco e Sinergia, e il terremoto di maggio in Emilia-Romagna, eventi che impattarono negativamente sul bilancio della compagnia dei Ligresti rispettivamente per 76 (73 milioni a fronte delle posizioni creditizie vantate dal gruppo, 3 milioni per l’escussione di alcune polizze fideiussorie), poi salito a 86 milioni a fine anno, e per 42 milioni di euro.
Non solo: nella relazione si leggeva come nel Segmento Danni “l’andamento positivo dei Rami Auto, accompagnato da una sostanziale tenuta delle riserve sinistri accantonate a fine 2011”, permetteva “di confermare i livelli di sufficienza attesi ad esito degli smontamenti per pagamenti”. Tradotto: gli accantonamenti erano già stati fatti ed erano sufficienti a riallineare i parametri alle richieste di Consob e Isvap, tanto che il Combined Ratio (rapporto fra spese amministrative e costi dei sinistri rispetto alla raccolta premi: nel caso di un risultato inferiore al 100% la compagnia può vantare un beneficio dalla gestione Danni prima dei risultati della gestione finanziaria) comprensivo degli oneri tecnici era calato al 98,1% (dal 101,9% al 30 giugno 2011), “grazie soprattutto al calo del Loss Ratio (dal 75,3% del 30/6/11 al 71,7%), denotando un confortante progresso pur in presenza di un elevato peso degli oneri tecnici, la cui stagionalità incide in maniera rilevante nella prima parte dell’anno”.
Di più: “Escludendo il costo stimato per l’evento sismico registrato in Emilia Romagna, il Combined Ratio scenderebbe al 96,9%, ad evidenza del sostanziale miglioramento della gestione tecnica nei primi mesi dell’anno” si leggeva nella relazione, che segnalava come proseguisse “l’approccio particolarmente prudente del gruppo nella rivalutazione del carico residuo, in linea con le ipotesi già declinate nei piani di sviluppo, soprattutto nei rami di responsabilità civile”. Un costo Peluso lo aveva pagato, certo: la raccolta premi calava del 6,9% su base annua nei Danni (3,4 miliardi) e ancor di più nel Vita (-37,9% a 1,59 miliardi), ma qui giocava contro un contesto macroeconomico sempre più sfidante rispetto all’anno precedente, e “anche in questo ambito, peraltro, i risultati registrati dal segmento risultano apprezzabili, grazie al positivo andamento della gestione finanziaria, pur se in leggera controtendenza a partire dal mese di maggio, per effetto delle rinnovate tensioni sul debito sovrano di alcuni paesi dell’area euro”.
Ma se il piano di pulizia di bilancio procedeva senza particolari intoppi sul fronte dei risultati operativi (anzi, se non fossero intervenuti i fallimenti delle holding dei Ligresti e il sisma in Emilia Romagna l’utile sarebbe balzato ad oltre 140 milioni di euro netti, con un miglioramento di oltre 200 milioni rispetto ad un anno prima), perché una volta approvato dall’assemblea dei soci di Fondiaria-Sai del 20 dicembre 2012 il progetto di fusione a quattro Unipol-FonSai-Premafin-Milano Assicurazioni, si è poi proceduto ad ulteriori svalutazioni, tanto che il bilancio civilistico 2012 della compagnia ha chiuso in rosso per 722,7 milioni di euro pesantemente condizionato da 428 milioni di euro di svalutazione della partecipazione detenuta nella controllata Milano Assicurazioni (già svalutata di 233 milioni al 31/12/2011) e da ulteriori 444 milioni di svalutazioni di partecipazioni di controllo e non (contro gli 803 di svalutazioni al 31/12/2011) e da una rettifica di valore sul patrimonio immobiliare di proprietà per 96 milioni (51 milioni al 31/12/2011)?
Oltre alla “tempesta perfetta”, secondo fonti vicine alla vicenda contattate da Affaritaliani che citano anche delle intercettazioni telefoniche della Guardia di Finanza di Torino (già pubblicate sul Fatto Quotidiano del 25 ottobre) ai manager della nuova Unipol-Sai sulla redazione del piano di fusione, si sarebbe trattato di una decisione assunta su “input” di Unipol in vista della fusione, ottenendo d’un colpo due risultati, ossia quello di allineare la valutazione della compagnia ai concambi indicati da Unipol e coprire eventuali gap di riservazione della compagnia bolognese “affogandolo” in maggiori accantonamenti fatti su Fondiaria-Sai senza far nascere ulteriori polemiche rispetto a quelle già sollevate dal fondo Amber e da Sator, circa un “salvataggio” che metteva a loro dire al riparo in primis gli interessi dei creditori (principalmente Mediobanca e UniCredit) e in subordine dell’acquirente, ma non tutelava adeguatamente gli azionisti di minoranza dell’ex impero Ligresti.
Nel frattempo Peluso era già uscito, con immediata campagna mediatica tesa a descrivere l’avvicendamento come una “cacciata” di un manager che avrebbe, secondo i suoi detrattori, peggiorato i conti della compagnia per propria imperizia, una parte delle dismissioni (gli ospedali, che bruciavano cassa, o la Galleria San Federico, a Torino, dalla cui cessione il gruppo ricavò 35 milioni di plusvalenze) erano già state avviate nonostante il momento critico del mercato immobiliare e il cambio di proprietà era ormai avviato. Così la sensazione è che si sia voluto giocare il più possibile a scaricabarile: Unipol, Mediobanca e UniCredit sui Ligresti e i Ligresti sul management, specialmente quello meno “legato” alla famiglia. Sarà ora la magistratura di Torino a fare luce e cercare di capire se, in assenza di controlli più incisivi da parte delle autorità di vigilanza (Isvap e Consob) fossero effettivamente state occultate sin dal bilancio 2010 passività per oltre 600 milioni e nel caso chi sapesse e quanto. E chi invece si è trovato a cercare di salvare il salvabile dovendo combattere non solo contro mercati in crisi ma anche, forse, contro una serie di “conflitti d’interessi” tra azionisti vecchi e nuovi e loro creditori.